In questi giorni tiene banco l’alluvione drammatica che ha coinvolto mezza Italia ed in particolare l’Emilia-Romagna. Tra le altre cose di cui si sta molto discutendo, nei palazzi della politica, la possibilità di usare i fondi europei del PNRR per dare una mano alle popolazioni più colpite e in generale per il dissesto idrogeologico del nostro Paese. Sapete qual è la risposta del governo Meloni? “No, perché i tempi sono stretti”.
Tecnicamente, però, usare parte di quei fondi è possibile: le risorse per mettere in sicurezza il Paese potrebbero aumentare, assorbendo quelle che lasceranno per strada i progetti che non ingranano, da spostare altrove, su fondi che hanno una scadenza più lunga rispetto a giugno del 2026. Lo sa anche il governo che si può fare. E tra l’altro lo spazio non è stato occupato perché non ha ancora deciso come impiegare i “risparmi” che arriveranno dai progetti esclusi dal Pnrr. C’è un problema. E qui si innestano le giustificazioni di Palazzo Chigi. Che restano coperte, ma che sono ben note agli addetti ai lavori che stanno seguendo da vicino la revisione dei progetti.

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Il problema riguarda i 9 miliardi, sparsi nel Pnrr, per la salvaguardia del territorio, che sono rimasti incredibilmente quasi tutti sulla carta. È da questa consapevolezza che è maturato il gran rifiuto alla proposta di “mettere più fondi sulla prevenzione del dissesto idrogeologico”. Non solo la dote non aumenterà, ma potrebbe addirittura diminuire. Dei 9 miliardi a disposizione, circa 6,5 sono assegnati a progetti che hanno a che fare indirettamente con la tutela del territorio. È la “fetta”, distribuita in più ambiti, che registra un avanzamento, seppure minimo.
Sono invece fermi i 2,5 miliardi che il Pnrr assegna alle misure “per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico”. Sono soldi che servono a portare in sicurezza 1,5 milioni di cittadini, oggi a rischio. Da utilizzare per finanziare i progetti, affidati alle Regioni, che devono intervenire sui costoni rocciosi, evitando così le frane, ma anche per aiutare i Comuni di montagna a recuperare le case che rischiano di crollare. Piccole infrastrutture, che però sono ferme.
Una valutazione che è stata fatta anche a Bruxelles: l’Italia ha i soldi, ben 9 miliardi, ma non li riesce a utilizzare. Dal governo Draghi, la destra ha ereditato il lavoro preparatorio, fino all’approvazione degli elenchi dei progetti. Poi il meccanismo si è inceppato. Le aggiudicazioni degli appalti procedono a rilento: vanno completate entro la fine dell’anno, ma l’obiettivo è già a rischio. Eppure la stragrande maggioranza di questi progetti deve solo cambiare il vestito finanziario, passando dal Fondo per lo sviluppo e la coesione al Pnrr. Sono progetti “in essere”: esistono da tempo e però fanno fatica ad andare avanti. Dei 2,5 miliardi che il governo può impiegare, appena 800 milioni sono stati invece indirizzati a nuovi investimenti. E qui il quadro si fa più critico perché questi progetti sono ancora più indietro.
Quella che invece ha preso forma è l’accusa del governo alle Regioni. “È inutile cercare altro denaro se ancora qualcuno ha delle risorse nel cassetto”, ha tuonato il ministro della Protezione civile Nello Musumeci. Che però, in quanto gestore di una parte dei fondi (1,2 miliardi, gli altri sono affidati all’Ambiente) a ieri non aveva un quadro preciso della spesa. Al ministero, i dati li aspettano dalle Regioni. L’esito di questo cortocircuito è la decisione del governo di alzare bandiera bianca. Per mettere in sicurezza il Paese bisognerebbe marciare a un ritmo più spedito, con una spesa di 3 miliardi all’anno, per un decennio, secondo le stime elaborate dai tecnici di “Italia Sicura”, la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico chiusa nel 2018. E invece il governo Meloni ha scelto la resa.